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Incontro nazionale Genuino Clandestino | Roma 16/18 maggio | Tavolo “Lavoro bracciantile e caporalato in agricoltura”

Qui puoi trovare il programma completo per l’incontro nazionale della comunità in lotta GENUINO CLANDESTINO,  Roma, 16/18 maggio: http://genuinoclandestino.noblogs.org/post/2014/04/18/roma-16-17-18-maggio/

Qui puoi trovare le proposte di discussione per i 7 tavoli tematici: http://genuinoclandestino.noblogs.org/post/2014/04/18/tavoli-tematici/

Il tavolo “Lavoro bracciantile e caporalato in agricoltura” si incontrerà sabato 17 maggio dalle ore 10.00 alle 13.00, al Forte Prenestino. Sarà coordinato da:
COORDINAMENTO LAVORO BRACCIANTILE PIEMONTESE
OSSERVATORIO MIGRANTI BASILICATA
SOS ROSARNO

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3^ incontro ABITARE E LAVORO STAGIONALE MIGRANTE IN PIEMONTE

Questo appuntamento si inserisce in un percorso iniziato con il primo incontro sui temi dell’abitare e del lavoro stagionale migrante in Piemonte, che si è tenuto al C.S.O.A. Gabrio di Torino il 14 dicembre 2013, in occasione dell’assemblea nazionale della rete Abitare Nella Crisi, e proseguito con il secondo incontro, che si è tenuto all’Ex Mutua Occupata di Asti l’11 gennaio 2014.

Oltre a conoscere più nel dettaglio le diverse situazioni locali – Canelli (AT), Castelnuovo Scrivia (AL), Saluzzo (CN), Ex Moi Occupata rifugiati e migranti (TO) – l’obiettivo di questo incontro era di iniziare ad attivare ragionamenti su cui poter strutturare pratiche di lotta – condivise ed al contempo specifiche per ciascuna località – relative al bisogno abitativo ed allo sfruttamento lavorativo che vivono i migranti nei diversi territori rurali del Piemonte. L’Ex Moi Occupata, pur essendo una realtà metropolitana, non è affatto estranea a queste tematiche, dal momento che è attraversata da persone che si spostano alla ricerca di lavoro nelle campagne piemontesi e che, prima o dopo la stagione, trovano nell’Ex Moi un approdo abitativo, di relazioni e di socialità alternativo alle logiche dell’incertezza radicale, dell’emergenza e dell’assistenzialismo umanitario.

Il riferimento costante ed unidirezionale di politicanti e di molti solidali alle esperienze di sfruttamento della manodopera migrante nelle campagne del Sud Italia si rivela controproducente, nel momento in cui serve a rinforzare lo stereotipo orientalista secondo cui il “problema più grave” sta comunque nel Mezzogiorno “arretrato”. In questo senso, rivolgiamo una critica alle comparazioni strumentali di Castelnuovo Scrivia, Canelli e Saluzzo con Rosarno, volte sostanzialmente (anche quando non intenzionalmente) ad avallare il “senso comune” che, comunque, nelle campagne piemontesi la situazione sarebbe migliore. Con ciò non intendiamo affatto rifiutare la comparazione con altre situazioni di sfruttamento della manodopera migrante nelle campagne italiane, ma rifondarla. Il nostro metodo comparativo, infatti, non si basa su un principio di equivalenza – per cui le diverse realtà sarebbero classificabili secondo una scala di “gravità”, fino ad arrivare al “caso estremo” della presenza di caporalato, lavoro nero, semi-schiavitù.- ma su un principio di singolarità. Riteniamo che le logiche di sfruttamento e di violenza non siano universali, ma vadano indagate e messe in luce a partire dai contesti specifici nelle quali si manifestano. La presenza di lavoro grigio dilagante e di vite migranti “in eccesso”, costrette a vivere all’addiaccio nelle ricche campagne del cuneese, si innesta in un sistema di sfruttamento e di violenza diverso, ma tanto grave quanto quelli del Sud Italia. Solo in questo senso, “Rosarno è ovunque”.

Il punto di partenza da cui muoviamo è la volontà di scambiare saperi e pratiche situati in specifici contesti territoriali, sociali, politici ed economici del nord-ovest italiano: il cuneese, il tortonese, il monferrato. L’obiettivo comune è quello di costruire spazi dove intraprendere, insieme ai migranti impiegati o alla ricerca di lavoro nelle campagne, percorsi di analisi, conricerca, rivendicazione e riappropriazione, riguardanti le condizioni lavorative ed abitative cui sono costretti. Si tratta, quindi: di evidenziare in che modo la manodopera migrante sia centrale – e niente affatto marginale – nei sistemi produttivi locali ad agricoltura intensiva; di mettere in luce la condizione di perenne ricattabilità giuridica a cui è costretta la forza-lavoro migrante, e che ne garantisce la potenziale condizione di sfruttamento; di individuare pratiche adeguate per mettere in atto un’alternativa concreta in termini di salario, di riappropriazione del reddito, di diritto all’abitare, di ricomposizione sociale, di socialità alternativa alle logiche di esclusione ed alienazione.

Dopo le presentazioni di tutti i partecipanti, la prima parte dell’incontro che si è svolto a Sale è stata dedicata alla restituzione di informazioni approfondite sullo “stato dell’arte” di Castelnuovo Scrivia (AL), Saluzzo (CN), Ex Moi Occupata rifugiati e migranti (TO) e Canelli (AT). Durante il mese antecedente all’incontro era stata fatta circolare una griglia conoscitiva delle condizioni abitative e lavorative di migranti e rifugiati in Piemonte, che le diverse realtà hanno completato e che è servita come base per lo scambio di dati, la possibilità di chiedere spiegazioni ed ottenere chiarimenti nel merito. Successivamente, abbiamo concordato sulla necessità di concretizzare l’importante elaborazione e scambio di saperi, immaginando pratiche di lotta per la prossima stagione, condivise dove possibile, specifiche per i singoli contesti territoriali quando necessario. I temi che sono stati individuati come centrali per le pratiche a venire sono tre: lavoro/autorganizzazione, casa/abitare, comunicazione/boicottaggio. Da un primo confronto all’interno dei tavoli tematici sono già emersi i punti principali su cui lavoreremo durante la prossima riunione operativa.

SCARICA L’ANTEPRIMA DEL REPORT

Per leggere la versione integrale del report (25 pagine), scrivere ad uno dei contatti elencati a pag 2 dell’anteprima.

Il 4^ incontro si terrà a Saluzzo.


Hanno partecipato:

Presidio Permanente Castelnuovo Scrivia

Braccianti e lavoratori migranti della bassa valle Scrivia
PIAM Onlus
Sportello Diritto alla Casa ed all’Abitare Dignitoso di Saluzzo e Verzuolo
Lola Furiosa
Comitato di Solidarietà Rifugiati e Migranti Ex Moi Occupata
Rifugiati dell’Ex Moi che hanno vissuto e lavorato come braccianti nel saluzzese
Brigate di Solidarietà Attiva Pavia e Coordinamento nazionale
Cooperativa agricola Valli Unite
Alessandria in Movimento
Ricercatori

 

 

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“i 600 disperati della baraccopoli”: la razza al lavoro secondo Coldiretti Saluzzo.

Coldiretti: "Abbiamo sempre rispettato i diritti dei migranti della frutta"
Le parole del Presidente Coldiretti della zona di Saluzzo si commentano da sé:
Non possiamo accettare che i 600 disperati della baraccopoli vengano accomunati a chi era regolarmente impiegato. Questo è un problema sociale (…).

Un bacino di problemi sociali a cui però si attinge a piene mani, se è vero che una parte di quei “disperati della baraccopoli” ha lavorato per le aziende di zona. Questo distinguo tra i “salvati” degli impropriamente detti “campus” Coldiretti (controllati negli orari di utilizzo dei containers, i quali erano sovraffollati e dotati di servizi comunque insufficienti per i numeri) ed i “sommersi” della baraccopoli, non solo è profondamente lesivo della dignità di persone costrette – in Italia, nel saluzzese – a vivere in condizioni vergognose, ma è anche gravemente ipocrita.

La presenza di manodopera in eccedenza fa, infatti, molto comodo al sistema produttivo locale, che la può assorbire “alla bisogna”, mediante lavoro occasionale stipendiato a cottimo, non garantendo alcuna tutela minima, ma relegando le persone ad una quotidiana lotta per la sopravvivenza. Noi vogliamo sapere da Coldiretti il metodo attraverso cui elabora le stime relative al fabbisogno di manodopera, dal momento che negli ultimi anni il numero di braccianti stranieri effettivamente impiegati dalle aziende che rappresenta è stato sempre superiore alle previsioni che vengono diffuse ad inizio stagione: attendiamo di sapere cosa si prevede per quest’anno.

Ricordiamo, inoltre, che in una ricerca sociale fatta dalla Cooperativa Dedalus di Napoli sulle condizioni di vita dei lavoratori migranti nelle campagne del Sud Italia, vengono indicati 3 fattori di sfruttamento: se sono presenti tutti e 3 ci si trova in presenza di Grave Sfruttamento o Lavoro Paraschiavistico. I fattori sono:

  1. Il diritto alla libertà personale, attraverso la rilevazione di situazioni di riduzione in schiavitù e semischiavitù dei lavoratori, a partire dalla fase di reclutamento avviamento e trasporto.
  2. Il diritto alla salute e a degne condizioni abitative, attraverso la rilevazione di tipologia e condizione dell’alloggio occupato e delle condizioni di salute influenzate dalla tipologia del lavoro svolto e dalle condizioni igienico-abitative.
  3. Il diritto a situazioni lavorative degne, attraverso la rilevazione delle condizioni salariali, orarie, di messa in sicurezza, di rispetto delle norme contrattuali in generale, nonché dell’eventuale presenza di forme di caporalato che si occupano di reclutamento e collocamento al lavoro.

A Saluzzo – per il minimo che sappiamo rispetto alla realtà complessiva della manodopera migrante nelle campagne – abbiamo riscontrato la presenza degli ultimi due.

Stupisce quindi tanto clamore nei confronti del Rapporto Caritas-Migrantes, soprattutto da parte delle istituzioni, che invece di avere una funzione sussidiaria rispetto alle associazioni di categoria del padronato potrebbero, ad esempio, invocare maggiori controlli nelle aziende, dal momento che i pochi effettuati hanno rilevato la presenza di lavoro grigio dilagante. Il Rapporto in questione si permette di accennare, in una frase, alla presenza di sfruttamento di lavoratori stranieri nelle campagne del saluzzese: questo sarebbe “gettare fango”?!

Noi non solo siamo convinti che sia corretto parlare di sfruttamento, ma riteniamo anche che non si tratti dell'”unico caso eclatante di sfruttamento di lavoratori stranieri in agricoltura nel Nord“, nè nella nostra sola regione: le realtà di Castelnuovo Scrivia (Alessandria) e di Canelli (Asti) ci ricordano che le logiche in atto nel saluzzese sono diffuse e sempre più “ordinarie” nelle campagne piemontesi.

Crediamo che ad essere “scorretto”, “superficiale” e – aggiungiamo noi – ipocrita, sia chi nega un fatto palese: cioè che i migranti accampati a Guantanamò sono parte integrante di un sistema di sfruttamento, fondato su logiche di produzione e distribuzione che conducono ordinariamente all’erosione dei salari e dei diritti dei lavoratori, in maniera ancor più grave per chi vive la condizione di migrante.

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Saluzzo, il tempo delle tende è finito: tornate nelle baracche!

Giovedì 7 novembre, dopo una generossissima proroga di due settimane, le 20 tende del ministero saranno smontate. Si auspicava ancora un incontro tra migranti e rappresentanti del Comune, per concordare insieme una data ragionevole per lo smontaggio, viste le esigenze di chi ancora sta lavorando nella raccolta della frutta, ma l’incontro non c’è stato. Arrivate a metà settembre, oltre quattro mesi dopo l’arrivo dei migranti, le 20 tende hanno ospitato la metà degli accampati a Guantanamò. Si è trattato dell’ennesimo rattoppo in stile emergenziale – visto che a Saluzzo un percorso di accoglienza dignitosa negli anni non si è voluto costruire – che ha costretto oltre 200 persone a convivere con freddo, umidità, infiltrazioni di acqua, senza brande, materassi, coperte, docce calde e servizi igienici per tutti e nemmeno un luogo asciutto dove poter cucinare e dove poter sostare prima di andare a dormire. Nel frattempo, l’altra metà dei migranti arrivati al Foro Boario ha continuato a vivere nelle baracche auto-costruite, in condizioni analoghe o peggiori, perchè sotto le tende posto per tutti non ce n’era.

Giovedì 7 novembre, saranno i migranti stessi a dover provvedere allo smontaggio dei loro ripari. Le tende devono essere restituite, secondo gli accordi pattuiti tra l’ammistrazione e gli organi centrali. Imminente è anche la chiusura del “campus” di containers della Coldiretti. Poco importa che la stagione della raccolta si sia prolungata oltre le previsioni, a causa delle numerose piogge. Poco importa che alcune persone stiano ancora lavorando e altre debbano aspettare di essere pagate. Poco importa che non ci siano alternative abitative degne di questo nome da offrire. Una soluzione, infatti, le istituzioni sembrano averla trovata: ai migranti è stato detto che, una volta smontate le tende, potranno tornare nelle baracche auto-costruite, che per ora non verranno sgomberate. Nonostante l’ordinanza anti-bivacco, emessa ed eseguita dal Sindaco mediante sgombero ad inizio stagione, inquadrasse la presenza dell’accampamento come un problema di ordine pubblico da estirpare, oggi, come per magia, le baracche diventano per il Comune una comoda soluzione abitativa.

Viviamo in una società in cui i migranti, grazie alla legge Bossi-Fini – portatrice di morte, razzismo istituzionale e sfruttamento – diventano i lavoratori precari più ricattabili, punibili con la reclusione in un CIE e la deportazione, perchè colpevoli solo di voler esistere in un paese che non è il loro. Viviamo in una società in cui il lavoro, di per sé, non è più garanzia di niente, se non di precarietà diffusa. Chi perde il lavoro, perde la casa. Chi non trova lavoro, non può permettersi una casa. Senza lavoro, non si può rinnovare il permesso di soggiorno. Per questo, oggi dobbiamo lottare perchè un’esistenza dignitosa – il poter vivere senza il rischio costante di essere ricattati, sgomberati o deportati – sia possibile al di là della condizione lavorativa. E’ necessario lottare per cambiare lo stato di cose su vari piani. A livello locale, il prossimo anno non vogliamo più vedere né tende, né baracche, ma sistemazioni abitative degne di questo nome.

Per i migranti di Guantanamò né elemosina, né rattoppi.
La casa è un diritto. Riprendiamoci la dignità!

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17 famiglie scampate allo sfratto.

Delle 38 famiglie “in ritardo con il pagamento dell’affitto” che hanno presentato domanda, 34 sono state giudicate ammissibili. Il contributo viene erogato ai proprietari degli alloggi in cui queste famiglie vivono, che firmano un “patto di solidarietà” con cui ricevono i soldi e si impegnano ad abbuonare in tutto o in parte il debito, oppure a ridurre temporaneamente o definitivamente l’affitto e a non sfrattare l’inquilino per 6 mesi. Per ora, su 34 proprietari solo 17 hanno firmato: a loro vanno dai 750 ai 1.500 euro. Per le altre 17 famiglie che hanno presentato una domanda “ammissibile”, se non arriverà la firma del proprietario, non ci sarà neanche questa piccola possibilità di ritardare di qualche mese lo sfratto esecutivo. Restano poi le 4 domande “non ammissibili” e tutti gli altri casi, segnalati dai servizi e dal terziario sociale o tutt’ora invisibili.

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Guantanamò ANTIRAZZISTA !

Torino, 12 ottobre 2013.
Un gruppo di migranti parte dal campo di Guantanamò (Saluzzo, CN) per unirsi al Corteo Antirazzista che sfila per le vie di Torino contro la manifestazione nazionale “anti-immigrati” della Lega Nord, pochi giorni dopo l’ennesima strage di Lampedusa.
Anche a Saluzzo la Lega ha giocato la carta dell’immigrazione come spauracchio per invocare legalità e sicurezza, cavalcando la xenophobia nel tentativo di ritagliarsi uno spazio politico sulla pelle dei migranti.
Siete moribondi. Fuori i razzisti dalle nostre città!

Qui il video: Guantanamò ANTIRAZZISTA !

 

 

 

 

 

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Le “case” dei braccianti immigrati. Spazi abitativi come forme di resistenza all’annullamento esistenziale.

Le “case” dei braccianti immigrati. Spazi abitativi come forme di resistenza all’annullamento esistenziale | di Paolo Scandolin, ricercatore presso il Laboratorio di Ricerca sull’Immigrazione e le Trasformazioni Sociali dell’Università Cà Foscari di Venezia (lo Squaderno no. 23, marzo 2012)

Primo contributo, per iniziare a parlare di lotta per il “diritto all’abitare” anche a Saluzzo. A breve sul blog l’intervista a Lola Furiosa e Adam sul tema del diritto all’abitare, realizzata durante la trasmissione “Fà la cosa giusta” di Radio Blackout.

Campo di Guantanamò, Foro Boario, Saluzzo (CN) – Foto: Anna Maria.

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Sgombero di Guantanamò, 11 giugno 2013 – Foto: Brigata di Solidarietà Attiva Cuneo.

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Ingresso del Campus della Coldiretti per i lavoratori stranieri a Saluzzo – Foto: Carlo.

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Ordinanza municipale anti-bivacco, istruzioni per l’uso – Foto: Brigata di Solidarietà Attiva Cuneo

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I braccianti di colore impiegati nella raccolta stagionale di frutta e verdura sono incatenati in un perenne tour de force nelle campagne del meridione: da giugno ad ottobre in Puglia per la raccolta dell’uva e dei pomodori, da novembre in Calabria per quella delle arance ed infine, da marzo in poi, in Campania per le fragole oppure in Sicilia per le primizie e le patate novelle. Poi si ricomincia di nuovo dalla Puglia in una perenne migrazione circolare.

Le ferree leggi del mercato e della produzione agricola costringono i braccianti ad una mobilità forzata che non conosce soste: la stagionalità dell’occupazione che contraddistingue il lavoro nei campi non consente di stabilirsi per più di qualche mese in uno stesso luogo ed è alla base di un movimento migratorio permanente all’interno dei diversi distretti agricoli.

In tale situazione l’abitare non può che essere precario e disagevole. Le misere paghe che ricevono, la speculazione sui prezzi degli affitti di cui sono vittime e l’assoluta mancanza di una politica abitativa a loro favore, costringono, il più delle volte, gli operai agricoli immigrati a trovare sistemazione in spazi decisamente peggiori rispetto a quelli a cui erano abituati nei loro paesi d’origine: sia in Africa che nei paesi dell’Est Europa vivevano in case dignitose; qui, invece, nella maggior parte dei casi devono adattarsi ad un “abitare” al limite del sopportabile.

Le tipologie abitative dei braccianti immigrati possono essere ricondotte sostanzialmente a due: vecchie masserie fatiscenti e strutture industriali abbandonate. I casolari disabitati sparsi nelle campagne vengono solitamente occupati da famiglie di polacchi, rumeni o ucraini che arrivano in Italia in grandi gruppi organizzati su base parentale. Spesso, sono gli stessi caporali che indicano loro gli spazi dove sistemarsi: poi, in cambio del “gentile” servizio, chiedono come compenso una quota di almeno un centinaio di euro al mese a persona, che detraggono di volta in volta dalla già bassissima paga che corrispondono.

La totale mancanza di disponibilità economica e la volontà di cercare di risparmiare il più possibile per riuscire a spedire qualcosa in patria ai propri famigliari spinge la maggior parte dei braccianti ad insediarsi in vecchie fabbriche o in edifici commerciali ormai in disuso. All’interno di questi spazi centinaia di immigrati danno vita a dei veri e propri accampamenti, in condizioni particolarmente gravose. Sono costretti a vivere in ambienti umidi e pericolanti, privi di servizi igienici e di collegamento alla rete elettrica, situati spesso a grande distanza dalle principali fonti di acqua potabile e quasi mai serviti dalla nettezza urbana. Esemplificativo è il caso della Rognetta, una ex-fabbrica di succo d’arancia nella periferia di Rosarno: fino al 2010, anno in cui è stata rasa al suolo dai bulldozer, agli occhi di un eventuale visitatore si circondati ovunque da rifiuti, laterizi con lastre d’amianto, senza servizi igienici e con una sola fonte d’acqua; dormivano ammassati in delle catapecchie di cartone e plastica, perennemente immersi in un tanfo ammorbante, soffocati in un’aria resa irrespirabile da fuochi accessi in bidoni di latta per riscaldarsi e cucinare (BBC TV, 2009).

Per molti, gli stanzoni bui e decrepiti degli accampamenti assomigliano più alle celle di un carcere che ai locali di una vera casa. Tant’è che Bouchaib Hassan, per non allarmare troppo la madre quando riesce a contattarla per telefono, si immagina un’altra realtà e finge di essere altrove: “Abitiamo in un campo attrezzato, in prefabbricati di legno forniti di luce e di servizi igienici” (Botte, 2009).

I lavoratori immigrati spesso finiscono per stabilirsi in luoghi isolati, in condizioni considerate barbare ed incivili: li si incolpa, a riguardo, di non essere in grado di vivere in modo decoroso e di non aspirare nemmeno a migliorare il loro stato, senza tenere conto della vivace intraprendenza con cui cercano in ogni caso di crearsi un ambiente confortevole e dignitoso. Infatti, nonostante le condizioni di partenza estremamente avverse e le svariate difficoltà materiali che si presentano quotidianamente, i braccianti stagionali cercano comunque di ricreare all’interno degli insediamenti una parvenza di ambiente “domestico”. Con attrezzature non adeguate e con materiali di scarto riescono a rivitalizzare spazi altrimenti irrimediabilmente in rovina; apportano rudimentali migliorie e ristrutturazioni agli edifici, realizzano dei luoghi di culto e delle aree destinate all’esercizio dei rapporti sociali. Ad esempio, in un exstabilimento per la raffinazione dell’olio situato nella Piana di Gioia Tauro (uno dei principali luoghi di insediamento in zona, fino al giorno della demolizione) un gruppo di immigrati sudanesi aveva costruito con dei teli di plastica blu un resistente tendone dove, grazie ad una parabola, era possibile vedere i canali di Kartoum. Poco più avanti avevano allestito un piccolo emporio al cui interno avevano disposto a ferro di cavallo dei vecchi divani e alcuni tappetti in modo da creare una zona accogliente dove poter bere insieme il tè verde (Del Grande, 2009).

Sebbene alcuni gruppi siano più organizzati di altri, è possibile riscontrare come, nonostante la situazione estrema (o forse proprio per questo), tutti si impegnino comunque nel cercare di imprimere “calore”, di dare un senso ai luoghi da loro occupati: a volte anche un semplice oggetto, un telo, un cappellino, una fotografia, un poster o una significativa scritta sul muro della stanza contribuiscono a creare un’atmosfera meno ostile ed alienante. All’interno degli insediamenti le trasformazioni strutturali e le scarne modalità di arredamento rappresentano una forma di appropriazione identitaria dei luoghi, indubbiamente necessaria per far fronte alla crisi di presenza che quotidianamente vivono gli immigrati. Gli spazi occupati rivestono però un’importanza ancora maggiore se considerati, nel loro insieme, quali particolari ambiti di condivisione, di scambio e di ri-allacciamento di rapporti umani gratificanti e paritari.

Per comprendere fino in fondo questo aspetto è opportuno innanzitutto considerare le condizioni lavorative dei braccianti di colore occupati nel settore agricolo: costretti a sgobbare in mezzo ai campi dalle dieci alle quattordici ore al giorno, costantemente esposti alle intemperie stagionali e a diretto contatto con sostanze nocive (diserbanti e antiparassitari); assunti in nero con una paga giornaliera che raramente raggiunge i 25 euro e sono sottoposti alle angherie ed ai soprusi del kapò da un lato, oltre che a continue aggressioni di stampo razzista da parte di istituzioni e popolazione autoctona dall’altro (Galesi e Mangano, 2010). Il lavoro nelle campagne non ha nulla di bucolico, è un’attività alienante e disumana, fonte di fatiche e sofferenze quotidiane: gli schiavi salariati della “fabbrica verde” vengono pesante mega-compagnie del settore agroalimentare; la concorrenza fra i lavoratori viene esasperata ad arte, così come vengono fomentate le rivalità e gli scontri fra i diversi gruppi nazionali. La stessa forma di pagamento, solitamente a cottimo, stimola la diffusione di un approccio individualistico e determina la rottura di qualsiasi legame solidaristico (Boretti, 2010).

Se la dispotica organizzazione dell’attività lavorativa nei campi conduce, quindi, ad una drammatica reificazione dei rapporti sociali ed a una totale alienazione del lavoratore, la vita all’interno degli spazi “abitati” dai braccianti viene a rappresentare in un certo senso il suo opposto. Questo, infatti, è il luogo dove diventa finalmente possibile riprendersi sia fisicamente che mentalmente dall’annichilimento esistenziale vissuto durante le estenuanti giornate di raccolta. Se durante le lunghe ore trascorse negli agrumeti o nei campi di pomodori il bracciante è indotto a trasformarsi in una mera macchina erogatrice di forza-lavoro e ad annullare ogni forma di reazione agli stimoli esterni, una volta tornato al proprio accampamento cerca di ritrovare una dimensione più umana. La stessa preparazione della cena (spesso l’unico pasto consumato nell’arco della giornata) diventa un importante momento di condivisione, un’occasione di scambio reciproco e al contempo di riaffermazione della propria identità, che viene ad assumere quasi un carattere ritualistico: gli ingredienti necessari vengono sempre comprati in comune e alla sera forniti al cuoco di turno che, di volta in volta, cercherà di cucinare una pietanza tipica del suo paese d’origine (come può essere il tajine marocchino o la lamb soup senegalese). Nella fase di preparazione, l’utilizzo di determinate spezie sembra rivestire una centralità particolare, tant’è che gli immigrati si preoccupano sempre di procurarsene una scorta negli empori gestiti dai loro connazionali.

All’interno degli insediamenti vengono a crearsi legami di solidarietà fondati su uno stile di vita comunitario, mentre nel contempo vengono instaurati elementari rapporti di mutuoaiuto che pongono le condizioni per lo sviluppo di forme di protezione sociale. Il caso dell’accampamento di San Nicola Varco, in provincia di Salerno, lo dimostra in modo eclatante: a partire dagli anni ‘90, fino al novembre del 2009, data in cui è stato sgomberato, la maggior parte dei braccianti si sistemava in un mercato ortofrutticolo abbandonato nelle vicinanze del paese. Con il passare degli anni e l’aumentare delle affluenze, sono arrivati a fondare un piccolo “villaggio” con tanto di spazi comuni dedicati all’esercizio dei rapporti sociali: grazie a una notevole dose di creatività ed ingegno sono riusciti a recuperare un edificio in decadenza, ad approntare un sorta di bar all’interno di una gigantesca baracca, a realizzare un’area adatta a svolgere funzioni religiose ed a costruire un vero e proprio panificio in grado di sfornare duecento pagnotte al giorno. È interessante notare come, all’interno del campo, nonostante le infinite difficoltà quotidiane, fosse possibile respirare una certa serenità ed un tangibile sentimento di fratellanza. A proposito, Mahfoud Aziz racconta: “Ci sono, ad esempio, i due fornai che lasciano nella loro stanza il pane invenduto e chiunque si trovi in difficoltà può andare a mangiare, senza domandare il permesso a nessuno. In questo campo, anche se per intere settimane non riesci a lavorare e non hai i soldi per mangiare, stai certo che non sentirai mai il dolore dei morsi della fame” (Botte, 2009).

Gli insediamenti realizzati nei distretti agricoli costituiscono dunque degli importanti spazi sociali al cui interno i braccianti non solo operano in direzione di una profonda appropriazione-trasformazione dell’ambiente, ma soprattutto danno vita ad una fitta rete relazionale spesso in grado di andare oltre le divisioni nazionali e di rappresentare una forma di opposizione alla concorrenza e alla rivalità innescate nei luoghi di lavoro: è attraverso la relazione paritaria con gli altri lavoratori, che può avvenire negli spazi comuni, che essi non solo riscoprono la propria dignità di esseri umani, ma prendono anche coscienza della propria situazione ed elaborano strategie volte a migliorarla. Difatti, è proprio dagli accampamenti situati alle periferie delle città che sono partite le rivolte attraverso cui i braccianti immigrati hanno denunciato con coraggio le terribili condizioni di lavoro e le brutali aggressioni razziste a cui sono sottoposti (Boretti, 2010).

All’interno degli insediamenti si consolida una rete di solidarietà fra i diversi gruppi di braccianti che li abitano e si diffonde una coscienza comune antagonista alle regole del libero mercato: qui, di fronte alla disgregazione sociale vissuta all’esterno, una consistente massa di persone si riscopre unita dalle medesime condizioni di vita, da bisogni e prospettive esistenziali simili e sviluppa un forte e positivo senso di comunanza.

 

Bibliografia

  • Boretti B., “Da Castelvolturno a Rosarno. Il lavoro vivo degli immigrati tra stragi, pogrom, rivolte e razzismo di stato”, in Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia, a cura di Basso P., Franco Angeli, Milano, 2010.
  • Botte A., Mannaggia la miserìa. Storie di braccianti stranieri e caporali nella Piana del Sele, Ediesse, Roma, 2009.
  • Coin F. (a cura di), Gli immigrati, il lavoro la casa. Tra segregazione e mobilitazione, Franco Angeli, Milano, 2004.
  • Del Grande G., “Arance amare: reportage da Rosarno, tra i braccianti immigrati”, Fortress Europe, www.fortresseurope.blogspot.com, 27 gennaio 2009.
  • Galesi L., Mangano A., Voi li chiamate clandestini, Manifestolibri, Roma, 2010.
  • Leogrande A., Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, 2008.
  • Rovelli M., Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro, Feltrinelli, Milano, 2010.

Filmografia

  • Angrisano N., Rosarno: il tempo delle arance, InsuTv, gennaio 2010.
  • Annozero, La spremuta, Rai TV, 14 gennaio 2010.
  • Di Natale R. M., Malarazza, gennaio 2008.
  • Previ J., Rosarno – Documentario BBC, BBC TV, febbraio 2009.
  • Segre A., Il Sangue verde, ZaLab, 2010

 

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Comunicato stampa a proposito delle condizioni abitative dei lavoratori stagionali migranti accampati al Foro Boario, Saluzzo.

A proposito dell’articolo uscito su La Stampa Cuneo venerdì 11 ottobre, dal titolo “Un mese e smonteremo la tendopoli dei migranti”, Lola Furiosa ha qualcosa da aggiungere.

  1. Apprendiamo dalle parole del Sindaco che è stato “elaborato un complesso piano per lo smantellamento” delle tende. Chiediamo al Sindaco come mai, nemmeno quest’anno, sia stato invece elaborato un decente piano per l’accoglienza dei migranti provenienti in gran parte dall’Africa occidentale. La loro presenza durante la stagione della raccolta della frutta ricorre da almeno cinque anni ed era pertanto ampiamente prevedibile.
  2. A tal proposito, ricordiamo che l’unica azione politica volta a “preparare l’accoglienza” dei migranti in arrivo, è stata quest’anno l’ordinanza comunale, datata 28 maggio, con cui il Sindaco ha disposto il divieto “di ogni forma di campeggio, bivacco, accampamento con roulottes, campers, mezzi meccanici, tende baracche, giacigli e quant’altro sia idoneo a consentire la dimora, seppure temporaneo”. A tale ordinanza il Sindaco ha poi dato esecuzione l’11 giugno, disponendo lo sgombero dei migranti accampati in attesa dell’apertura della stagione della frutta ed attirandosi la ferma condanna da parte dell’ASGI sia per le operazioni di sgombero che per il rifiuto alla collaborazione con gli enti del terziario sociale “nella soluzione dell’emergenza umanitaria creatasi a causa di tale azione di forza”. Chiediamo al Sindaco la ragione di questa azione di forza preventiva, ostile ed ingiustificata, lesiva dei diritti umani dei lavoratori migranti, dato che ora sembra vantare una gestione dello smantellamento delle tende “giocata sul buon senso e sulle buone relazioni, senza tensioni”. Credamo che il buon senso e le buone relazioni si sarebbero dovuti cercare nell’accoglienza dei migranti, non nel loro allontanamento.
  3. Prendiamo atto che la data dello sgombero è stata posticipata dal 20 ottobre al 7 novembre, date le necessità dettate dalla stagione di raccolta dei kiwi. Questa proroga non fa altro che evidenziare, ancora una volta, la strutturale carenza nella pianificazione dell’accoglienza dei lavoratori migranti. Ricordiamo a tal proposito che: le 20 tende sono arrivate dal Ministero il 15 settembre, a stagione quasi conclusa; sono sufficienti solo per ospitare la metà di tutti gli accampati, gli altri si riparano tutt’ora nelle baracche auto-costruite; sono state montate e concesse ai ragazzi completamente vuote: sprovviste del cappotto termico interno, di qualunque telo isolante sul pavimento, di brande, di materassi, di coperte. Solo in seguito alle proteste dei migranti si è cercato di tamponare la situazione, con interventi mai del tutto risolutivi. Chiediamo al Sindaco se oggi, con le attuali condizioni atmosferiche, si possa considerare complessivamente degna la sistemazione dei lavoratori stagionali accampati al Foro Boario che, come lui ricorda, contribuiscono alla ricchezza del territorio.
  4. Riguardo ai migranti tutt’ora accampati nelle baracche auto-costruite, la cui situazione sarebbe secondo il Sindaco “molto più di difficile gestire” perchè “non ci sono interlocutori attendibili”, riteniamo che gli unici a non essere mai stati interlocutori attendibili siano proprio le istituzioni, con il loro linguaggio svilente e infantilizzante. Se interpellate seriamente, in spazi e luoghi idonei all’ascolto e al rispetto reciproco, queste persone avrebbero molto da dire, da chiedere e da proporre. Iniziamo noi con il chiedere al Sindaco se non ritienga urgente proporre un’alternativa abitativa a coloro che vivono in baracche costruite con materiali di scarto, viste la pioggie ed il freddo incedenti, così come le possibilità di ammalarsi. Sappiamo quanto le problematiche igienico-sanitarie siano tema caro all’amministrazione comunale. Ricordiamo infatti che, all’inizio di agosto, la presa d’acqua del Foro Boario era stata chiusa dal Sindaco con un’azione di forza proprio perchè “pericolosa sotto il profilo igieico-sanitario”.

Riteniamo che le condizioni abitative dei lavoratori stagionali migranti presenti a Saluzzo siano inaccettabili, oggi come all’inizio della stagione. Con l’arrivo del freddo la situazione non può che aggravarsi, dal momento che:

  • gli spazi autocostruiti dove i lavoratori migranti dormono non sono impermeabili, né riscaldati. Anche nelle tende ministeriali l’acqua filtra ed il freddo è pungente;
  • le due docce presenti dentro l’area del Foro Boario sono utilizzate da 150 persone: oltre ai problemi igienici che questo comporta, il boiler è insufficiente a garantire acqua calda per tutt*. Di conseguenza i lavoratori spesso si lavano con l’acqua gelida, oppure attendono la mezzanotte perchè l’acqua sia nuovamente tiepida;
  • da 5 mesi a questa parte non ci sono servizi igienici sufficienti;
  • le tende sono sprovviste di brande, materassi e coperte. Queste ultime sono state portate da persone solidali;
  • non c’è uno spazio coperto ed asciutto dove poter sostare prima di andare a dormire e dove poter cucinare.

Pertanto, chiediamo che ai lavoratori accampati al Foro Boario venga offerta una sistemazione abitativa alternativa, dove poter vivere in sicurezza e dignità.

Riteniamo che il diritto all’abitare debba essere slegato dalla condizione lavorativa, non solo per i migranti stagionali, ma per tutt* coloro che, nella crisi, vivono gravi condizioni di vulnerabilità, perdendo il lavoro e quindi la casa.

Il prossimo anno non ci faremo trovare impreparat*.

Lola Furiosa.

Foro Boario, Saluzzo, 12/10/2013

Articolo in evidenza

12/10: Fuori i leghisti dalla città! CORTEO ANTIRAZZISTA.

Lega la Lega

DA GUANTANAMO’ CI SAREMO!

SABATO 12 OTTOBRE 2013
ORE 15 • PIAZZA CASTELLO • TORINO

FUORI I RAZZISTI DALLA CITTA’!
CORTEO ANTIRAZZISTA
contro la manifestazione nazionale della Lega Nord

 

Appello contro la manifestazione nazionale della Lega Nord a Torino.

La Lega Nord ha annunciato per il 12 ottobre prossimo un corteo nazionale a Torino convocato contro l’immigrazione e per la legalità. La comunicazione dello stato maggiore leghista è stata data dopo l’insulto razzista alla ministra Cecyle Kyengè da parte del vicepresidente del senato Calderoli: un rilancio arrogante di chi risponde alle accuse di razzismo volendo provare a portare il razzismo in piazza.
È dunque immediatamente chiaro il disegno politico che sta dietro questo corteo: tornare ancora una volta a chiamare in piazza lo zoccolo duro della Lega, o quel che ne rimane dopo i recenti tracolli elettorali, soffiando sulle ceneri del razzismo; auto-rappresentandosi come movimento “popolare e di lotta” a fianco della popolazione autoctona, per provare a recuperare consensi attraverso la carta della xenofobia.
D’altronde negli anni la Lega è stata tra i principali artefici dell’inasprimento delle politiche di immigrazione nel nostro Paese, mettendo in atto un sistematico razzismo istituzionale con Roberto Maroni Ministro dell’Interno. Una guerra a* migranti di cui tra i tanti episodi vale la pena ricordare ovviamente la legge Bossi-Fini con l’utilizzo massiccio dei CIE come dispositivo di controllo sociale e di regolamentazione del mercato del lavoro, la pratica barbara dei respingimenti in mare, e la gestione emergenziale dei flussi migratori dopo le primavere nord-africane, gestione sfociata poi in quel buco nero di business e accoglienza negata che è stata la famigerata “emergenza nord-Africa”.
Oggi, appunto dopo l’abbandono di una fetta considerevole del suo elettorato alle ultime elezioni, la Lega ci riprova. La crisi continua mordere e chi fino a poco tempo fa era seduto in uno dei governi dell’austherity oggi vuole tornare in piazza per giocarsi la carta dell’immigrazione come spauracchio per invocare maggiore sicurezza puntando alla repressione e all’esclusione sociale. E a testimonianza di questo basta pensare alla recente proposta di legge a firma leghista per rendere più pesanti le pene per chi occupa case o terreni in modo organizzato (più di dieci): una legge a difesa della rendita speculativa e del patrimonio immobiliare delle banche.
E la nostra città non è certo stata scelta a caso: travolta da una valanga di casse integrazione molte ormai agli sgoccioli e capitale italiana degli sfratti, Torino è -nei propositi leghisti- un terreno fertile per provare a seminare odio e sperare di raccogliere consensi.
Torino è anche il capoluogo della Regione governata dal leghista Cota; uno degli esempi più espliciti forse di come la Lega al di là degli slogan populisti non sta “dalla parte della gente”. Il disastro della sanità regionale dove tra tagli, mazzette e corruzione Cota ha aperto le porte dei consultori pubblici ai cattolici integralisti e ha svenduto ai privati settori economicamente più appetibili ben testimoniano come anche la Lega sieda ai tavoli dei responsabili delle politiche di austerità, di chi smantella lo stato sociale e l’istruzione creando privilegi per pochi e precarietà diffusa per i settori popolari.
Sono dunque molte le ragioni per cui riteniamo importante che il 12 ottobre Torino non venga invasa dal corteo nazionale di un movimento razzista e xenofobo. Nella nostra città da anni fitte reti di solidarietà si tessono dal basso, nelle lotte per la casa, nei presidi solidali, nei gesti quotidiani di resistenza al razzismo e costruiscono un tessuto sociale che è ben diverso dal triste spettacolo che la Lega vorrà inscenare quel giorno in piazza.