Non possiamo accettare che i 600 disperati della baraccopoli vengano accomunati a chi era regolarmente impiegato. Questo è un problema sociale (…).
Un bacino di problemi sociali a cui però si attinge a piene mani, se è vero che una parte di quei “disperati della baraccopoli” ha lavorato per le aziende di zona. Questo distinguo tra i “salvati” degli impropriamente detti “campus” Coldiretti (controllati negli orari di utilizzo dei containers, i quali erano sovraffollati e dotati di servizi comunque insufficienti per i numeri) ed i “sommersi” della baraccopoli, non solo è profondamente lesivo della dignità di persone costrette – in Italia, nel saluzzese – a vivere in condizioni vergognose, ma è anche gravemente ipocrita.
La presenza di manodopera in eccedenza fa, infatti, molto comodo al sistema produttivo locale, che la può assorbire “alla bisogna”, mediante lavoro occasionale stipendiato a cottimo, non garantendo alcuna tutela minima, ma relegando le persone ad una quotidiana lotta per la sopravvivenza. Noi vogliamo sapere da Coldiretti il metodo attraverso cui elabora le stime relative al fabbisogno di manodopera, dal momento che negli ultimi anni il numero di braccianti stranieri effettivamente impiegati dalle aziende che rappresenta è stato sempre superiore alle previsioni che vengono diffuse ad inizio stagione: attendiamo di sapere cosa si prevede per quest’anno.
Ricordiamo, inoltre, che in una ricerca sociale fatta dalla Cooperativa Dedalus di Napoli sulle condizioni di vita dei lavoratori migranti nelle campagne del Sud Italia, vengono indicati 3 fattori di sfruttamento: se sono presenti tutti e 3 ci si trova in presenza di Grave Sfruttamento o Lavoro Paraschiavistico. I fattori sono:
- Il diritto alla libertà personale, attraverso la rilevazione di situazioni di riduzione in schiavitù e semischiavitù dei lavoratori, a partire dalla fase di reclutamento avviamento e trasporto.
- Il diritto alla salute e a degne condizioni abitative, attraverso la rilevazione di tipologia e condizione dell’alloggio occupato e delle condizioni di salute influenzate dalla tipologia del lavoro svolto e dalle condizioni igienico-abitative.
- Il diritto a situazioni lavorative degne, attraverso la rilevazione delle condizioni salariali, orarie, di messa in sicurezza, di rispetto delle norme contrattuali in generale, nonché dell’eventuale presenza di forme di caporalato che si occupano di reclutamento e collocamento al lavoro.
A Saluzzo – per il minimo che sappiamo rispetto alla realtà complessiva della manodopera migrante nelle campagne – abbiamo riscontrato la presenza degli ultimi due.
Stupisce quindi tanto clamore nei confronti del Rapporto Caritas-Migrantes, soprattutto da parte delle istituzioni, che invece di avere una funzione sussidiaria rispetto alle associazioni di categoria del padronato potrebbero, ad esempio, invocare maggiori controlli nelle aziende, dal momento che i pochi effettuati hanno rilevato la presenza di lavoro grigio dilagante. Il Rapporto in questione si permette di accennare, in una frase, alla presenza di sfruttamento di lavoratori stranieri nelle campagne del saluzzese: questo sarebbe “gettare fango”?!
Noi non solo siamo convinti che sia corretto parlare di sfruttamento, ma riteniamo anche che non si tratti dell'”unico caso eclatante di sfruttamento di lavoratori stranieri in agricoltura nel Nord“, nè nella nostra sola regione: le realtà di Castelnuovo Scrivia (Alessandria) e di Canelli (Asti) ci ricordano che le logiche in atto nel saluzzese sono diffuse e sempre più “ordinarie” nelle campagne piemontesi.
Crediamo che ad essere “scorretto”, “superficiale” e – aggiungiamo noi – ipocrita, sia chi nega un fatto palese: cioè che i migranti accampati a Guantanamò sono parte integrante di un sistema di sfruttamento, fondato su logiche di produzione e distribuzione che conducono ordinariamente all’erosione dei salari e dei diritti dei lavoratori, in maniera ancor più grave per chi vive la condizione di migrante.