Archivio mensile:Ottobre 2013
Guantanamò ANTIRAZZISTA !
Torino, 12 ottobre 2013.
Un gruppo di migranti parte dal campo di Guantanamò (Saluzzo, CN) per unirsi al Corteo Antirazzista che sfila per le vie di Torino contro la manifestazione nazionale “anti-immigrati” della Lega Nord, pochi giorni dopo l’ennesima strage di Lampedusa.
Anche a Saluzzo la Lega ha giocato la carta dell’immigrazione come spauracchio per invocare legalità e sicurezza, cavalcando la xenophobia nel tentativo di ritagliarsi uno spazio politico sulla pelle dei migranti.
Siete moribondi. Fuori i razzisti dalle nostre città!
Qui il video: Guantanamò ANTIRAZZISTA !
Le “case” dei braccianti immigrati. Spazi abitativi come forme di resistenza all’annullamento esistenziale.
Le “case” dei braccianti immigrati. Spazi abitativi come forme di resistenza all’annullamento esistenziale | di Paolo Scandolin, ricercatore presso il Laboratorio di Ricerca sull’Immigrazione e le Trasformazioni Sociali dell’Università Cà Foscari di Venezia (lo Squaderno no. 23, marzo 2012)
Primo contributo, per iniziare a parlare di lotta per il “diritto all’abitare” anche a Saluzzo. A breve sul blog l’intervista a Lola Furiosa e Adam sul tema del diritto all’abitare, realizzata durante la trasmissione “Fà la cosa giusta” di Radio Blackout.
Campo di Guantanamò, Foro Boario, Saluzzo (CN) – Foto: Anna Maria.
Sgombero di Guantanamò, 11 giugno 2013 – Foto: Brigata di Solidarietà Attiva Cuneo.
Ingresso del Campus della Coldiretti per i lavoratori stranieri a Saluzzo – Foto: Carlo.
Ordinanza municipale anti-bivacco, istruzioni per l’uso – Foto: Brigata di Solidarietà Attiva Cuneo
I braccianti di colore impiegati nella raccolta stagionale di frutta e verdura sono incatenati in un perenne tour de force nelle campagne del meridione: da giugno ad ottobre in Puglia per la raccolta dell’uva e dei pomodori, da novembre in Calabria per quella delle arance ed infine, da marzo in poi, in Campania per le fragole oppure in Sicilia per le primizie e le patate novelle. Poi si ricomincia di nuovo dalla Puglia in una perenne migrazione circolare.
Le ferree leggi del mercato e della produzione agricola costringono i braccianti ad una mobilità forzata che non conosce soste: la stagionalità dell’occupazione che contraddistingue il lavoro nei campi non consente di stabilirsi per più di qualche mese in uno stesso luogo ed è alla base di un movimento migratorio permanente all’interno dei diversi distretti agricoli.
In tale situazione l’abitare non può che essere precario e disagevole. Le misere paghe che ricevono, la speculazione sui prezzi degli affitti di cui sono vittime e l’assoluta mancanza di una politica abitativa a loro favore, costringono, il più delle volte, gli operai agricoli immigrati a trovare sistemazione in spazi decisamente peggiori rispetto a quelli a cui erano abituati nei loro paesi d’origine: sia in Africa che nei paesi dell’Est Europa vivevano in case dignitose; qui, invece, nella maggior parte dei casi devono adattarsi ad un “abitare” al limite del sopportabile.
Le tipologie abitative dei braccianti immigrati possono essere ricondotte sostanzialmente a due: vecchie masserie fatiscenti e strutture industriali abbandonate. I casolari disabitati sparsi nelle campagne vengono solitamente occupati da famiglie di polacchi, rumeni o ucraini che arrivano in Italia in grandi gruppi organizzati su base parentale. Spesso, sono gli stessi caporali che indicano loro gli spazi dove sistemarsi: poi, in cambio del “gentile” servizio, chiedono come compenso una quota di almeno un centinaio di euro al mese a persona, che detraggono di volta in volta dalla già bassissima paga che corrispondono.
La totale mancanza di disponibilità economica e la volontà di cercare di risparmiare il più possibile per riuscire a spedire qualcosa in patria ai propri famigliari spinge la maggior parte dei braccianti ad insediarsi in vecchie fabbriche o in edifici commerciali ormai in disuso. All’interno di questi spazi centinaia di immigrati danno vita a dei veri e propri accampamenti, in condizioni particolarmente gravose. Sono costretti a vivere in ambienti umidi e pericolanti, privi di servizi igienici e di collegamento alla rete elettrica, situati spesso a grande distanza dalle principali fonti di acqua potabile e quasi mai serviti dalla nettezza urbana. Esemplificativo è il caso della Rognetta, una ex-fabbrica di succo d’arancia nella periferia di Rosarno: fino al 2010, anno in cui è stata rasa al suolo dai bulldozer, agli occhi di un eventuale visitatore si circondati ovunque da rifiuti, laterizi con lastre d’amianto, senza servizi igienici e con una sola fonte d’acqua; dormivano ammassati in delle catapecchie di cartone e plastica, perennemente immersi in un tanfo ammorbante, soffocati in un’aria resa irrespirabile da fuochi accessi in bidoni di latta per riscaldarsi e cucinare (BBC TV, 2009).
Per molti, gli stanzoni bui e decrepiti degli accampamenti assomigliano più alle celle di un carcere che ai locali di una vera casa. Tant’è che Bouchaib Hassan, per non allarmare troppo la madre quando riesce a contattarla per telefono, si immagina un’altra realtà e finge di essere altrove: “Abitiamo in un campo attrezzato, in prefabbricati di legno forniti di luce e di servizi igienici” (Botte, 2009).
I lavoratori immigrati spesso finiscono per stabilirsi in luoghi isolati, in condizioni considerate barbare ed incivili: li si incolpa, a riguardo, di non essere in grado di vivere in modo decoroso e di non aspirare nemmeno a migliorare il loro stato, senza tenere conto della vivace intraprendenza con cui cercano in ogni caso di crearsi un ambiente confortevole e dignitoso. Infatti, nonostante le condizioni di partenza estremamente avverse e le svariate difficoltà materiali che si presentano quotidianamente, i braccianti stagionali cercano comunque di ricreare all’interno degli insediamenti una parvenza di ambiente “domestico”. Con attrezzature non adeguate e con materiali di scarto riescono a rivitalizzare spazi altrimenti irrimediabilmente in rovina; apportano rudimentali migliorie e ristrutturazioni agli edifici, realizzano dei luoghi di culto e delle aree destinate all’esercizio dei rapporti sociali. Ad esempio, in un exstabilimento per la raffinazione dell’olio situato nella Piana di Gioia Tauro (uno dei principali luoghi di insediamento in zona, fino al giorno della demolizione) un gruppo di immigrati sudanesi aveva costruito con dei teli di plastica blu un resistente tendone dove, grazie ad una parabola, era possibile vedere i canali di Kartoum. Poco più avanti avevano allestito un piccolo emporio al cui interno avevano disposto a ferro di cavallo dei vecchi divani e alcuni tappetti in modo da creare una zona accogliente dove poter bere insieme il tè verde (Del Grande, 2009).
Sebbene alcuni gruppi siano più organizzati di altri, è possibile riscontrare come, nonostante la situazione estrema (o forse proprio per questo), tutti si impegnino comunque nel cercare di imprimere “calore”, di dare un senso ai luoghi da loro occupati: a volte anche un semplice oggetto, un telo, un cappellino, una fotografia, un poster o una significativa scritta sul muro della stanza contribuiscono a creare un’atmosfera meno ostile ed alienante. All’interno degli insediamenti le trasformazioni strutturali e le scarne modalità di arredamento rappresentano una forma di appropriazione identitaria dei luoghi, indubbiamente necessaria per far fronte alla crisi di presenza che quotidianamente vivono gli immigrati. Gli spazi occupati rivestono però un’importanza ancora maggiore se considerati, nel loro insieme, quali particolari ambiti di condivisione, di scambio e di ri-allacciamento di rapporti umani gratificanti e paritari.
Per comprendere fino in fondo questo aspetto è opportuno innanzitutto considerare le condizioni lavorative dei braccianti di colore occupati nel settore agricolo: costretti a sgobbare in mezzo ai campi dalle dieci alle quattordici ore al giorno, costantemente esposti alle intemperie stagionali e a diretto contatto con sostanze nocive (diserbanti e antiparassitari); assunti in nero con una paga giornaliera che raramente raggiunge i 25 euro e sono sottoposti alle angherie ed ai soprusi del kapò da un lato, oltre che a continue aggressioni di stampo razzista da parte di istituzioni e popolazione autoctona dall’altro (Galesi e Mangano, 2010). Il lavoro nelle campagne non ha nulla di bucolico, è un’attività alienante e disumana, fonte di fatiche e sofferenze quotidiane: gli schiavi salariati della “fabbrica verde” vengono pesante mega-compagnie del settore agroalimentare; la concorrenza fra i lavoratori viene esasperata ad arte, così come vengono fomentate le rivalità e gli scontri fra i diversi gruppi nazionali. La stessa forma di pagamento, solitamente a cottimo, stimola la diffusione di un approccio individualistico e determina la rottura di qualsiasi legame solidaristico (Boretti, 2010).
Se la dispotica organizzazione dell’attività lavorativa nei campi conduce, quindi, ad una drammatica reificazione dei rapporti sociali ed a una totale alienazione del lavoratore, la vita all’interno degli spazi “abitati” dai braccianti viene a rappresentare in un certo senso il suo opposto. Questo, infatti, è il luogo dove diventa finalmente possibile riprendersi sia fisicamente che mentalmente dall’annichilimento esistenziale vissuto durante le estenuanti giornate di raccolta. Se durante le lunghe ore trascorse negli agrumeti o nei campi di pomodori il bracciante è indotto a trasformarsi in una mera macchina erogatrice di forza-lavoro e ad annullare ogni forma di reazione agli stimoli esterni, una volta tornato al proprio accampamento cerca di ritrovare una dimensione più umana. La stessa preparazione della cena (spesso l’unico pasto consumato nell’arco della giornata) diventa un importante momento di condivisione, un’occasione di scambio reciproco e al contempo di riaffermazione della propria identità, che viene ad assumere quasi un carattere ritualistico: gli ingredienti necessari vengono sempre comprati in comune e alla sera forniti al cuoco di turno che, di volta in volta, cercherà di cucinare una pietanza tipica del suo paese d’origine (come può essere il tajine marocchino o la lamb soup senegalese). Nella fase di preparazione, l’utilizzo di determinate spezie sembra rivestire una centralità particolare, tant’è che gli immigrati si preoccupano sempre di procurarsene una scorta negli empori gestiti dai loro connazionali.
All’interno degli insediamenti vengono a crearsi legami di solidarietà fondati su uno stile di vita comunitario, mentre nel contempo vengono instaurati elementari rapporti di mutuoaiuto che pongono le condizioni per lo sviluppo di forme di protezione sociale. Il caso dell’accampamento di San Nicola Varco, in provincia di Salerno, lo dimostra in modo eclatante: a partire dagli anni ‘90, fino al novembre del 2009, data in cui è stato sgomberato, la maggior parte dei braccianti si sistemava in un mercato ortofrutticolo abbandonato nelle vicinanze del paese. Con il passare degli anni e l’aumentare delle affluenze, sono arrivati a fondare un piccolo “villaggio” con tanto di spazi comuni dedicati all’esercizio dei rapporti sociali: grazie a una notevole dose di creatività ed ingegno sono riusciti a recuperare un edificio in decadenza, ad approntare un sorta di bar all’interno di una gigantesca baracca, a realizzare un’area adatta a svolgere funzioni religiose ed a costruire un vero e proprio panificio in grado di sfornare duecento pagnotte al giorno. È interessante notare come, all’interno del campo, nonostante le infinite difficoltà quotidiane, fosse possibile respirare una certa serenità ed un tangibile sentimento di fratellanza. A proposito, Mahfoud Aziz racconta: “Ci sono, ad esempio, i due fornai che lasciano nella loro stanza il pane invenduto e chiunque si trovi in difficoltà può andare a mangiare, senza domandare il permesso a nessuno. In questo campo, anche se per intere settimane non riesci a lavorare e non hai i soldi per mangiare, stai certo che non sentirai mai il dolore dei morsi della fame” (Botte, 2009).
Gli insediamenti realizzati nei distretti agricoli costituiscono dunque degli importanti spazi sociali al cui interno i braccianti non solo operano in direzione di una profonda appropriazione-trasformazione dell’ambiente, ma soprattutto danno vita ad una fitta rete relazionale spesso in grado di andare oltre le divisioni nazionali e di rappresentare una forma di opposizione alla concorrenza e alla rivalità innescate nei luoghi di lavoro: è attraverso la relazione paritaria con gli altri lavoratori, che può avvenire negli spazi comuni, che essi non solo riscoprono la propria dignità di esseri umani, ma prendono anche coscienza della propria situazione ed elaborano strategie volte a migliorarla. Difatti, è proprio dagli accampamenti situati alle periferie delle città che sono partite le rivolte attraverso cui i braccianti immigrati hanno denunciato con coraggio le terribili condizioni di lavoro e le brutali aggressioni razziste a cui sono sottoposti (Boretti, 2010).
All’interno degli insediamenti si consolida una rete di solidarietà fra i diversi gruppi di braccianti che li abitano e si diffonde una coscienza comune antagonista alle regole del libero mercato: qui, di fronte alla disgregazione sociale vissuta all’esterno, una consistente massa di persone si riscopre unita dalle medesime condizioni di vita, da bisogni e prospettive esistenziali simili e sviluppa un forte e positivo senso di comunanza.
Bibliografia
- Boretti B., “Da Castelvolturno a Rosarno. Il lavoro vivo degli immigrati tra stragi, pogrom, rivolte e razzismo di stato”, in Razzismo di stato. Stati Uniti, Europa, Italia, a cura di Basso P., Franco Angeli, Milano, 2010.
- Botte A., Mannaggia la miserìa. Storie di braccianti stranieri e caporali nella Piana del Sele, Ediesse, Roma, 2009.
- Coin F. (a cura di), Gli immigrati, il lavoro la casa. Tra segregazione e mobilitazione, Franco Angeli, Milano, 2004.
- Del Grande G., “Arance amare: reportage da Rosarno, tra i braccianti immigrati”, Fortress Europe, www.fortresseurope.blogspot.com, 27 gennaio 2009.
- Galesi L., Mangano A., Voi li chiamate clandestini, Manifestolibri, Roma, 2010.
- Leogrande A., Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Mondadori, 2008.
- Rovelli M., Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro, Feltrinelli, Milano, 2010.
Filmografia
- Angrisano N., Rosarno: il tempo delle arance, InsuTv, gennaio 2010.
- Annozero, La spremuta, Rai TV, 14 gennaio 2010.
- Di Natale R. M., Malarazza, gennaio 2008.
- Previ J., Rosarno – Documentario BBC, BBC TV, febbraio 2009.
- Segre A., Il Sangue verde, ZaLab, 2010
Comunicato stampa a proposito delle condizioni abitative dei lavoratori stagionali migranti accampati al Foro Boario, Saluzzo.
A proposito dell’articolo uscito su La Stampa Cuneo venerdì 11 ottobre, dal titolo “Un mese e smonteremo la tendopoli dei migranti”, Lola Furiosa ha qualcosa da aggiungere.
- Apprendiamo dalle parole del Sindaco che è stato “elaborato un complesso piano per lo smantellamento” delle tende. Chiediamo al Sindaco come mai, nemmeno quest’anno, sia stato invece elaborato un decente piano per l’accoglienza dei migranti provenienti in gran parte dall’Africa occidentale. La loro presenza durante la stagione della raccolta della frutta ricorre da almeno cinque anni ed era pertanto ampiamente prevedibile.
- A tal proposito, ricordiamo che l’unica azione politica volta a “preparare l’accoglienza” dei migranti in arrivo, è stata quest’anno l’ordinanza comunale, datata 28 maggio, con cui il Sindaco ha disposto il divieto “di ogni forma di campeggio, bivacco, accampamento con roulottes, campers, mezzi meccanici, tende baracche, giacigli e quant’altro sia idoneo a consentire la dimora, seppure temporaneo”. A tale ordinanza il Sindaco ha poi dato esecuzione l’11 giugno, disponendo lo sgombero dei migranti accampati in attesa dell’apertura della stagione della frutta ed attirandosi la ferma condanna da parte dell’ASGI sia per le operazioni di sgombero che per il rifiuto alla collaborazione con gli enti del terziario sociale “nella soluzione dell’emergenza umanitaria creatasi a causa di tale azione di forza”. Chiediamo al Sindaco la ragione di questa azione di forza preventiva, ostile ed ingiustificata, lesiva dei diritti umani dei lavoratori migranti, dato che ora sembra vantare una gestione dello smantellamento delle tende “giocata sul buon senso e sulle buone relazioni, senza tensioni”. Credamo che il buon senso e le buone relazioni si sarebbero dovuti cercare nell’accoglienza dei migranti, non nel loro allontanamento.
- Prendiamo atto che la data dello sgombero è stata posticipata dal 20 ottobre al 7 novembre, date le necessità dettate dalla stagione di raccolta dei kiwi. Questa proroga non fa altro che evidenziare, ancora una volta, la strutturale carenza nella pianificazione dell’accoglienza dei lavoratori migranti. Ricordiamo a tal proposito che: le 20 tende sono arrivate dal Ministero il 15 settembre, a stagione quasi conclusa; sono sufficienti solo per ospitare la metà di tutti gli accampati, gli altri si riparano tutt’ora nelle baracche auto-costruite; sono state montate e concesse ai ragazzi completamente vuote: sprovviste del cappotto termico interno, di qualunque telo isolante sul pavimento, di brande, di materassi, di coperte. Solo in seguito alle proteste dei migranti si è cercato di tamponare la situazione, con interventi mai del tutto risolutivi. Chiediamo al Sindaco se oggi, con le attuali condizioni atmosferiche, si possa considerare complessivamente degna la sistemazione dei lavoratori stagionali accampati al Foro Boario che, come lui ricorda, contribuiscono alla ricchezza del territorio.
- Riguardo ai migranti tutt’ora accampati nelle baracche auto-costruite, la cui situazione sarebbe secondo il Sindaco “molto più di difficile gestire” perchè “non ci sono interlocutori attendibili”, riteniamo che gli unici a non essere mai stati interlocutori attendibili siano proprio le istituzioni, con il loro linguaggio svilente e infantilizzante. Se interpellate seriamente, in spazi e luoghi idonei all’ascolto e al rispetto reciproco, queste persone avrebbero molto da dire, da chiedere e da proporre. Iniziamo noi con il chiedere al Sindaco se non ritienga urgente proporre un’alternativa abitativa a coloro che vivono in baracche costruite con materiali di scarto, viste la pioggie ed il freddo incedenti, così come le possibilità di ammalarsi. Sappiamo quanto le problematiche igienico-sanitarie siano tema caro all’amministrazione comunale. Ricordiamo infatti che, all’inizio di agosto, la presa d’acqua del Foro Boario era stata chiusa dal Sindaco con un’azione di forza proprio perchè “pericolosa sotto il profilo igieico-sanitario”.
Riteniamo che le condizioni abitative dei lavoratori stagionali migranti presenti a Saluzzo siano inaccettabili, oggi come all’inizio della stagione. Con l’arrivo del freddo la situazione non può che aggravarsi, dal momento che:
- gli spazi autocostruiti dove i lavoratori migranti dormono non sono impermeabili, né riscaldati. Anche nelle tende ministeriali l’acqua filtra ed il freddo è pungente;
- le due docce presenti dentro l’area del Foro Boario sono utilizzate da 150 persone: oltre ai problemi igienici che questo comporta, il boiler è insufficiente a garantire acqua calda per tutt*. Di conseguenza i lavoratori spesso si lavano con l’acqua gelida, oppure attendono la mezzanotte perchè l’acqua sia nuovamente tiepida;
- da 5 mesi a questa parte non ci sono servizi igienici sufficienti;
- le tende sono sprovviste di brande, materassi e coperte. Queste ultime sono state portate da persone solidali;
- non c’è uno spazio coperto ed asciutto dove poter sostare prima di andare a dormire e dove poter cucinare.
Pertanto, chiediamo che ai lavoratori accampati al Foro Boario venga offerta una sistemazione abitativa alternativa, dove poter vivere in sicurezza e dignità.
Riteniamo che il diritto all’abitare debba essere slegato dalla condizione lavorativa, non solo per i migranti stagionali, ma per tutt* coloro che, nella crisi, vivono gravi condizioni di vulnerabilità, perdendo il lavoro e quindi la casa.
Il prossimo anno non ci faremo trovare impreparat*.
Lola Furiosa.
Foro Boario, Saluzzo, 12/10/2013
12/10: Fuori i leghisti dalla città! CORTEO ANTIRAZZISTA.
Appello contro la manifestazione nazionale della Lega Nord a Torino.
La Lega Nord ha annunciato per il 12 ottobre prossimo un corteo nazionale a Torino convocato contro l’immigrazione e per la legalità. La comunicazione dello stato maggiore leghista è stata data dopo l’insulto razzista alla ministra Cecyle Kyengè da parte del vicepresidente del senato Calderoli: un rilancio arrogante di chi risponde alle accuse di razzismo volendo provare a portare il razzismo in piazza.
È dunque immediatamente chiaro il disegno politico che sta dietro questo corteo: tornare ancora una volta a chiamare in piazza lo zoccolo duro della Lega, o quel che ne rimane dopo i recenti tracolli elettorali, soffiando sulle ceneri del razzismo; auto-rappresentandosi come movimento “popolare e di lotta” a fianco della popolazione autoctona, per provare a recuperare consensi attraverso la carta della xenofobia.
D’altronde negli anni la Lega è stata tra i principali artefici dell’inasprimento delle politiche di immigrazione nel nostro Paese, mettendo in atto un sistematico razzismo istituzionale con Roberto Maroni Ministro dell’Interno. Una guerra a* migranti di cui tra i tanti episodi vale la pena ricordare ovviamente la legge Bossi-Fini con l’utilizzo massiccio dei CIE come dispositivo di controllo sociale e di regolamentazione del mercato del lavoro, la pratica barbara dei respingimenti in mare, e la gestione emergenziale dei flussi migratori dopo le primavere nord-africane, gestione sfociata poi in quel buco nero di business e accoglienza negata che è stata la famigerata “emergenza nord-Africa”.
Oggi, appunto dopo l’abbandono di una fetta considerevole del suo elettorato alle ultime elezioni, la Lega ci riprova. La crisi continua mordere e chi fino a poco tempo fa era seduto in uno dei governi dell’austherity oggi vuole tornare in piazza per giocarsi la carta dell’immigrazione come spauracchio per invocare maggiore sicurezza puntando alla repressione e all’esclusione sociale. E a testimonianza di questo basta pensare alla recente proposta di legge a firma leghista per rendere più pesanti le pene per chi occupa case o terreni in modo organizzato (più di dieci): una legge a difesa della rendita speculativa e del patrimonio immobiliare delle banche.
E la nostra città non è certo stata scelta a caso: travolta da una valanga di casse integrazione molte ormai agli sgoccioli e capitale italiana degli sfratti, Torino è -nei propositi leghisti- un terreno fertile per provare a seminare odio e sperare di raccogliere consensi.
Torino è anche il capoluogo della Regione governata dal leghista Cota; uno degli esempi più espliciti forse di come la Lega al di là degli slogan populisti non sta “dalla parte della gente”. Il disastro della sanità regionale dove tra tagli, mazzette e corruzione Cota ha aperto le porte dei consultori pubblici ai cattolici integralisti e ha svenduto ai privati settori economicamente più appetibili ben testimoniano come anche la Lega sieda ai tavoli dei responsabili delle politiche di austerità, di chi smantella lo stato sociale e l’istruzione creando privilegi per pochi e precarietà diffusa per i settori popolari.
Sono dunque molte le ragioni per cui riteniamo importante che il 12 ottobre Torino non venga invasa dal corteo nazionale di un movimento razzista e xenofobo. Nella nostra città da anni fitte reti di solidarietà si tessono dal basso, nelle lotte per la casa, nei presidi solidali, nei gesti quotidiani di resistenza al razzismo e costruiscono un tessuto sociale che è ben diverso dal triste spettacolo che la Lega vorrà inscenare quel giorno in piazza.